mercoledì 23 novembre 2011

SI VIS PACEM, PARA BELLUM



 Fotografia di Giuseppe Lami

Il dissolvimento del mito del socialismo reale, simbolicamente identificato con la caduta del Muro di Berlino ed i fatti conseguenti all’11 settembre 2001 hanno segnato un nuovo ciclo della storia moderna i cui disegni sono ancora indefiniti e sempre più inquietanti.
Sulla scena mondiale gli attori della  guerra fredda sono stati surrogati da nuovi e inaspettati interpreti, radicalizzando posizioni che hanno spinto studiosi e politologi come Samuel P. Huntington a parlare di un nuovo scontro di civiltà secondo schemi che sembravano abbandonati e che invece si ripropongono con una fertilità inusuale facendo vacillare l’ideale di pace e di stabilità sociale che, soprattutto nell’Europa occidentale, è stata l’aspirazione dominante per tutta la seconda parte del secolo scorso. Se si vuole capire perché i nostri militari presidiano sperduti avamposti persi nel nulla della regione occidentale afghana ed in altri scenari di guerra, spesso pagando il loro impegno con un duro prezzo è indispensabile guardare ben oltre i confini nazionali ed europei, codificando con nuovi presupposti questi avvenimenti.
La sospensione della leva obbligatoria ha coinciso con un impegno straordinario delle nostre Forze Armate, trasformando rapidamente un esercito di nolenti naioni in abili soldati di professione. All’improvviso l’Italia, addormentata in un illusorio pacifico ed eterno benessere, ha scoperto che i suoi soldati erano parte attiva all’interno degli inaspettati scenari di un mondo in guerra.
In verità c’erano già stati dei precedenti. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, nel 1946, mentre in Italia erano ancora vivi i flussi della guerra civile, i nostri soldati sono intervenuti con le armi in Eritrea e poi in Somalia, in Corea, in Congo ed in Egitto.
Il 1980 è stato l’anno della prima vera spedizione militare italiana fuori area, nel cuore di un conflitto, quello libanese, che ha rappresentato un punto di svolta: gli italiani stupefatti hanno incominciato a capire che la guerra aveva posti liberi anche per loro. Poi in rapida successione c’è stata la liberazione del Kuwait invaso dall’Iraq (1991) la Somalia (1993) il Mozambico (1994) la Bosnia (1995) ed il Kosovo (1999) coevo alla missione a Timor Est, condotta insieme agli australiani ed infine la guerra all’Afghanistan dei talebani (2001) nella coalizione “Enduring  Freedom” a cui abbiamo partecipato con un’intensa quanto misconosciuta attività aeronavale.
La guerra in Iraq (2003) ha risvegliato lo spirito guerriero dei pacifisti che hanno misteriosamente identificato il simbolo della pace con la bandiera arcobaleno, vessillo degli omosessuali californiani e nord europei. Adesso siamo ancora in Afghanistan con la coalizione ISAF, mentre i bombardamenti contro la Libia, come da voci di palazzo, hanno letteralmente svuotato gli arsenali dell’Aeronautica Militare senza averne però ancora chiarito il motivo.
Un discorso a parte meriterebbe il nostro intervento in Libano del 2006, pubblicizzato dal Governo Prodi come una grande festa popolare per distribuire  nutella e coccole ai bambini libanesi, ad opera delle nostre materne soldatesse che venivano mostrate alla televisione come tenere nurse di un asilo nido. Sempre al governo Prodi, durante la missione ISAF in Afghanistan, sembra si debba la cattiva usanza di pagare i nemici perché facessero i bravi con i nostri soldati di pace, per non alterare gli instabili equilibri politici nazionali, magari con l’aiuto non troppo filantropico di qualche organizzazione “pacifista” e “antioccidentale”.
Il passaggio verso un vero e completo esercito di professione non è ancora finito, certamente per esigenze di bilancio e di svecchiamento della complessa macchina burocratica della Difesa, ma probabilmente anche perché, pur vivendo un periodo in cui il mondo è pieno di guerre di tutti i tipi, sono ben pochi gli inquilini dei piani alti che possono discernere con lucidità chi sono e chi saranno i nostri ipotetici nemici e soprattutto perché.
In questo confuso marasma di ipocrisie politiche ed ideologiche operano i nostri ragazzi che hanno scelto il mestiere delle armi, sicuramente anche per esigenze lavorative e questo non deve essere inteso come un fatto negativo, assumendosi responsabilità e rischi sconosciuti alla gran parte dei loro connazionali di ogni età, riscattando con il loro impegno molti luoghi comuni che hanno ammantato la nostra storia recente che ha scaricato proprio sui nostri soldati l’inefficienza di un sistema politico che di fatto non si è ancora completamente trasformato in una democrazia compiuta.
Noi su questo blog, sulla nostra fanpage e nei nostri documentari vogliamo parlare di questi uomini e donne in uniforme la cui professione rappresenta un avvenimento epocale per l’Italia e che avrà nel futuro ruoli sempre più complessi ed impervi.
(Antonello Tiracchia)



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